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Storie del Mito: Giacomo Leopardi, Bice Guglielmi e un dettaglio che li accomuna

La tomba di Bice Guglielmi La tomba di Bice Guglielmi © ViVi

A volte capita. Di rivalutare qualcuno che prima non ti stava simpatico. Per esempio un letterato italiano che da sempre è negli affanni degli studenti che affrontano la maturità. E’ capitato anche a me. 

Era il 1967 e, dovendo parlare del Romanticismo in letteratura, tra Leopardi e Manzoni scelsi il secondo. Naturalmente ricordavo bene gli “occhi ridenti e fuggitivi” di Silvia, la “donzelletta che vien dalla campagna”, le “magnifiche sorti e progressive” dell’umana gente e persino l’intimismo lirico dell’immensità dell’infinito. Tuttavia non me la sentivo di imbarcarmi sul tema dell’infelicità dell’essere umano, intesa come legge di natura. Più facile parlare di Don Abbondio, fra Cristoforo, Don Rodrigo e i suoi bravi, ma anche dei risvolti biografici, della conversione e dell’agorafobia di don Lisander.

Leopardi rimaneva un concetto esaltante ma difficile da dimostrare, sicuramente riconosciuto come un lirico immenso ma allo stesso tempo fragile e divagante. 

Ci voleva la miniserie su “Leopardi-Il poeta dell’infinito” con la regia di Sergio Rubini, per restituirci un ritratto inedito, pur storicamente coerente, di Giacomo Leopardi, mettendo in rilievo la capacità di “incendiare con i suoi versi non soltanto passioni amorose, ma anche ideali politici e sociali”.

Va detto che già dieci anni fa un film bello e illuminante, con la regia di Mario Martone, illustrava la breve vita del poeta di Recanati, introverso e triste, restituendo a me e forse a qualcun altro il “giovane favoloso” e soprattutto la completezza del l’universo leopardiano. 

E come non ricordare, approfittando dell’occasione, una piccola coincidenza che lega noi castellanetani a quel genio letterario? Nel nostro cimitero sulla lastra tombale di Bice Guglielmi, sorellina di Rodolfo morta prematuramente all’età di un anno, è inciso un verso, forse voluto dal papà Giovanni per stemperare il grande dolore.

 È un verso del commediografo greco antico Menandro, tradotto e ripreso da Leopardi che ne fa l’incipit del suo componimento Canto XXVII di Amore e Morte, nel ciclo di Aspasia : “Muor giovine colui che al cielo è caro”.
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