Nel suo testamento, scritto nove anni prima di morire, chiese di riportare queste parole sulla sua tomba. Un sogno di eternità che, a quanto pare, resterà nel groviglio di carte a cui confidò "il sogno intimo, arcano" di una vita vissuta nel silenzio, senza le dichiarazioni di stima e di affetto di una Mottola che davvero poco ha fatto per questo suo poeta.
Mottola infatti non sa nulla, Mottola se ne infischia. Tutto va come sempre, anzi meglio, specie quando di mezzo c'è il ricordo di quello, che tra mille controversie, è il suo unico "genius loci": una figura che ha impersonato e raccontato in modi e forme diverse l’identità, le contraddizioni, le significative vicende storiche e umane di una cittadina della profonda provincia meridionale.
Mi è capitato di avvicinarmi a questa figura qualche mese fa, giacché il suo nome aleggia ancora nei racconti di chi, prima della sua morte, lo ricorda come direttore della biblioteca comunale "Vito Sansonetti", di cui è stato anche il fondatore. Ma se qualche adulto di oggi rammenta ancora di quel novantenne reazionario, lo stesso non si può dire dei più giovani, che malgrado un istituto scolastico dedicato alla memoria di "don Michele", ignorano l'esistenza di questo illustre concittadino che al suo tempo frequentò anche Pascoli e Croce.
«Ma chi era Michele Lentini?», siamo andati a chiederlo alla pronipote Giulia Carriero, ciò che resta della sua famiglia, divisa al più tra morti premature e matrimoni non consumati. L’abbiamo incontrata in un pomeriggio d'estate, in una stanza con le pareti ricoperte di libri, dove le tende sono appena mosse da un alito di vento che accompagna i raggi di sole che filtrano tra persiane accostate.
Sulle pareti, invece, spiccano i cimeli di "zio Chele" gerarca fascista e accademico, un titolo che - mi dicono - si guadagnò sotto le camicie nere. Tra le memorie più interessanti, un quadro che - come per una strana analogia col Carducci - racconta con la poesia "Il ricordo" la morte prematura del figlio Dante. Anche a lui, come al "fior della pianta" dell'autore di Odi Barbare, era stato imposto lo stesso nome di quell'Alighieri che giusto qualche secolo prima aveva scritto la Divina Commedia.
Siamo stati, quindi, nei luoghi che catturarono la sua ispirazione lirica, cogliendo l’aspetto meno caduco della personalità di Lentini, divisa tra il pieno contatto con la natura, l’ansia della biblioteca e i pranzi a sbafo sulle tavole dei capipopolo di settant’anni fa, dove il poeta si guadagnava pagnotta e reputazione arrotando versi sarcastici contro gli oppositori del padrone di casa. Qui abbiamo scoperto che visse oltre novant’anni, che scrisse anche commedie, drammi, romanzi e novelle e che al suo tempo fu tra le penne più apprezzate e rappresentative della “nostra” Puglia.
Fuori da questi spazi Michele Lentini è quasi scomparso, se n'è andato pian piano, alla chetichella. E dopo quarant'anni non riemerge neanche la vocazione tombale della città che si accorge di ciò che perde quando ormai non c'è più nulla da fare. Neanche quando il "personaggio" Lentini, per quanto al suo tempo troppo schierato, troppo cattolico e troppo polemico, meriterebbe un riconoscimento "di piazza" che non si limiti alla solita targa o alla solita cerimonia.
«Inchiostro sprecato...», avrebbe detto don Michele in calce a questo articolo. Lui che per primo - in molte liriche - intuì l'inerzia, la perdita di valori mai rimpiazzati e la crescita di una sorta di diritto all'egoismo nei costumi della gente del posto. Ma no, non è questa, in fondo, la città che Lentini ha vissuto e amato, alla quale ha dedicato la vita, col compito di raccontare e mettere per iscritto tutti i vizi e le virtù di una Mottola che, ahimè, si è scordata di lui.
Ma la grandezza di Lentini sta forse in questo silenzio, maturato in quarant'anni dalla sua dipartita. Un silenzio elegante. Il suo infatti è stato un proverbiale distacco, forse con un pizzico di rancore. In fondo, come lui stesso ebbe a scrivere, avrebbe voluto cantare ancora.
Andrea Carbotti