Lo sa anche chi di sport sa molto poco: il ciclismo era ed è stato, per molti anni, lo sport degli affamati, una sorta di treno su cui saltare in cerca di fortuna. Un vagone che, per le famiglie di chi riuscì a salirci sopra, significò solo una cosa: una bocca in meno da sfamare, specie in un'Italia ancora alle prese con le ferite della guerra.
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Una volta era normale, quasi automatico, per un bambino sognare la bici e la maglia iridata. A quei tempi la bici servì a Binda per smettere di fare lo stuccatore in Costa Azzurra, a Coppi, allo stesso modo, per strappare due braccia alla manodopera agricola di Castellania, nell'Alessandrino.
Storie piacevoli, di cuore, che esaltano il riscatto di uomini nella polvere, nel fango e nelle strade sterrate. Ma quella che stiamo per raccontarvi è diversa: è quella dell'unico vero ciclista figlio della "nostra" Mottola contadina, ambasciatore della durezza delle due ruote e della sublimazione dello sforzo.
Beppe Quero, «Veterano 1904», come la scritta sulle sue casacche a strisce, un abile scalatore a cui la bici servì soltanto in tarda età per nutrire un sogno da Campionissimo di provincia.
Per entrare nella dimensione di questo racconto abbiamo incontrato Lucia Quero, figlia secondogenita del ciclista di cui si parla e si è scritto poco, forse perché decise di gareggiare solo quando, dopo 5 figli e ormai prossimo alla sessantina, si congedò dal lavoro di muratore e consacrò il resto dei suoi giorni alla bicicletta e ai suoi sacrifici.
«Scappava in bici prima di ogni gara di cui aveva notizia - racconta Lucia -, era la sua passione. La stessa per la quale si alzava molto presto e percorreva centinaia di chilometri in solitudine, dall’alba al tramonto».
Quella di Beppe è una parabola di vita a due ruote iniziata prima dei suoi vent'anni, ma allora nessuno seppe individuare in lui l'elemento in grado di affermarsi per doti e capacità.
Ci ripensò molti anni dopo, da "highlander", partecipando con successo a numerose gare internazionali dove riuscì anche a vincere. Raggiungeva i nastri di partenza in bici, per aderire a competizioni come la cicloturistica Ghisallo - Viggiano del 1969, dove all'arrivo fu premiato niente meno che dall’allora ministro del Tesoro Emilio Colombo.
Qualche anno più tardi, invece, dopo essere salito primo sulle rampe dello Stelvio, impiegando circa due ore e tre quarti, un giovane cronista cercò di indagare sul segreto della sua longevità. «Un bicchiere di vino, una brasciola e parte Beppe...» fu la risposta, come una pugnace revolverata.
«Una storia d'altri tempi, di prima del motore» - per dirla alla De Gregori - nella quale all'agonismo ciclistico si sovrappongono aneddoti e circostanze cui la Cinelli di Beppe Quero trova precisa identità e collocazione: «Quando a Mottola era ancora difficile trovare una ricevitoria - racconta la figlia -, mio padre raggiungeva Taranto in bicicletta per giocare "ai numeri"».
Beppe sapeva bene come sulla canna della bici ci fosse l'avventura e la sfida, e volle dimostrarlo anche ad un autista della linea Taranto - Mottola, che osò sfidarlo (dietro corrispettiva scommessa) in una gara "a chi arriva prima" sulla vecchia statale 100. Al tempo le biciclette erano pesanti e più complicate: non era così scontato, anzi tutto il contrario, che permettessero di andare più veloce di un autobus. Vinse Beppe, dopo una fuga solitaria sulla "serpentina", e intascò anche un premio in denaro.
«La gente lo criticava - continua sua figlia -, veniva tacciato di essere un vagabondo, ma preferisco credere alla versione che la sua fosse solo una passione incompresa. Ha incassato più giudizi che lodi, i suoi sacrifici non hanno mai ricevuto il giusto riconoscimento».
Un'ascesa, quella di Beppe, schiantata nel senso proprio del termine sul paraurti di un'auto, colpevole di non essersi fermata a uno "stop" nei pressi di San Basilio, a pochi chilometri dall'abitato di Mottola. Una caduta che gli causò un infortunio dal quale non riuscì più a riprendersi e che lo costrinse a dire basta con la bicicletta.
Morì circa vent'anni dopo, con indosso quella maglia realizzata per rispondere a chiunque gli chiedesse conto della sua età, dopo una vita da ciclista incompreso, tenace e infaticabile. Ai posteri resta la storia di un uomo che, lasciando la sua collina spinto da una sete inestinguibile di vento e ciclismo, ha tracciato un ricordo di passione e di carne viva che, lontano dall'indifferenza e dal veleno di quanti lo criticarono, ci racconta di un sogno immortale per resistere alle fatiche dello sport...e anche della vita.
Andrea Carbotti